È felicemente iniziata negli scorsi giorni la quindicesima edizione del Festival di Parma, tradizionale rassegna di fine estate che ha contribuito in questi anni a far comparire eminenti personalità della scena internazionale, da Vasil’ev a Nekrosius. L‘edizione attualmente in corso, insolitamente "monografica", è dedicata a Shakespeare e ai diversi modi e stili di rappresentarlo: un tema che parrebbe persino scontato, e si rivela tuttavia capace di dar vita a un programma sorprendentemente articolato nelle sue molteplici espressioni, appena viziato da una punta di supponenza organizzativa nel prevedere tanti appuntamenti fuori Parma, specialmente nella splendida villa Magnani Rocca che accoglie la grande mostra sulla pittura scespiriana di Füssli.
Il variegato itinerario è stato giustamente aperto da un‘esperienza tra le più curiose e singolari, una trascrizione del Macbeth affidata agli attori-cantori del "Maggio" di Costabona, straordinario modello di ritualità popolare che tuttora sopravvive in qualche centro dell'Appennino Tosco-emiiiano. Costruito su una musicalità sommaria e ripetitiva, più una dizione modulata che un vero e proprio canto — ma ricca di quegli ingenui ornamenti vocali che son propri del repertorio folklorico — il Maggio fa pensare a un rifacimento "basso" del melodramma, innestato su antichi cerimoniali contadini. L'argomento è "eroico", il culmine degli spettacoli son le scene di battaglia, evocate con incantevole propensione alla sintesi coreografica.
Allestito in un angolo verdeggiante del bel parco della villa Magnani Rocca, con la supervisione registica di Gigi Dall'Aglio, questo Macbeth dalla metrica enfatizzata («Riverita e colta udienza / se ascoltarci degno parvi / uman dramma a presentarvi / ci accingiam; chiediam licenza») e non storpiata da qualche erre blesa o carenza di pronuncia sembra naif ma è in realtà un capolavoro di consapevolezza "epica"; i luoghi dell’azione indicati da cartelli — "Inghilterra", “Scozia”, "Castello Inverness“ — e i morti che si rialzano ed escono di scena son degni dei più esemplari drammi didattici brechtiani. Suggeritori col copione in mano seguono gli interpreti istruendoli verso per verso, perché lo sforzo di memoria non deve appesantire la purezza dell’emissione, ed essendo gli unici privi di costume risultano per convenzione "invisibili", come i marionettisti bunraku e gli inservienti di tanto teatro orientale. E le streghe son tre improbabili omaccioni dall'agghindatura vistosa e dalle movenze esilaranti (repliche oggi e il 21 settembre).
Un’altra affascinantissima variazione su motivi scespiriani è quella proposta dal gruppo di quattro abili marionettiste veneziane che dal libretto di Così fan tutte han tratto il nome "La Fede delle Femmine", e già lo scorso anno si erano clamorosamente rivelate con l’impeccabile rappresentazione di un caso freudiano ricostruito in un’intrigante chiave di drammaturgia psicanalitico-musicale: per l’occasione "La Fede delle Femmine" si cimenta col Sogno di una notte di mezza estate, o per lo meno con le suggestioni di una scena del Sogno, quella — densa di valenze oniriche e di abbandoni sensuali — del paradossale innamoramento di Titania, filtrata tuttavia attraverso lo sguardo poetico di Andrea Zanzotto, intrecciata, giustapposta con versi di Zanzotto sul mondo della natura, declamata dalla sua stessa voce che scorre fuori campo. Ne è derivata una stratificata partitura verbale — sostenuta dalle musiche rarefatte Britten e Purcell — sul tema del legno, dei boschi, degli alberi, in cui la girandola scespiriana di incantesimi e apparizioni si alterna con gelidi cieli stellati su commoventi campagne invernali, e tra fate ed elfi compare una marionetta che raffigura lo stesso Zanzotto.