ll teatro La Fenice di Venezia non ha più il suo bellissimo teatro, però sa sempre trovare ottime 'scuse' per una programmazione di alto livello, mai banale. Da qualche giorno al Teatro Goldoni è cominciata la rassegna «Civiltà musicale veneziana», con una curiosa e assai ben riuscita proposta di un'opera a lungo ignorata di Francesco Cavalli, L'Orione, rappresentata una sola volta nel 1653 a Milano, dieci anni dopo la composizione. La messa in scena di un lavoro di teatro musicale barocco non è mai semplice ai nostri giorni: in genere sono opere lunghissime, con una gran parte dedicata ai recitativi, e in questo caso non è stata nemmeno trovata tanta musica originale. Così che il curatore e direttore della buona Orchestra Barocca di Venezia, Andrea Marcon ha anche utilizzato per gli intermedi, sinfonie e basi strumentali perduti, come per il Prologo, musiche altrui, di allievi e di contemporanei dallo stile simile. Proprio di Cavalli però sono arie ed ariosi di estrema bellezze e varietà, soprattutto quello vasto ed elegantemente drammatico in cui Diana lamenta l'errore che l’ha portata ad uccidere Orione.
D‘altra parte il libretto di Francesco Melosio è una vera delizia. Mette in scena solo dei e semidei, esempio unico nella storia del teatro musicale, ma gioca con le loro passioni e i loro problemi con strepitosa arguzia. Tanto che il testo talvolta parrebbe nostro contemporaneo. Suggerendo abbondanti tagli, il Gran Teatrino La Fede delle Femmine ha realizzato regia, scena e costumi mantenendo un riuscito equilibrio tra verità dell’antico e spettacolarità moderma. Scene geometriche, ma una costruzione quadrata appare anche in una tela di Dosso Dossi, la cui mostra s’è aperta contemporaneamente a Ferrara, e anche lì colori forti e netti, luci inaspettate, mescolanza di sacro e profano, fantasia allo stato puro. Riprendendo una tradizione veneziana dell’epoca dell’Orone, in scena marionette si mescolano ai cantanti rivestiti come parodia eccessiva delle magagne degli dei, Vulcano zoppicante, Eolo imbracato in tubi d‘aria, Giove con tre teste, Ciclopi uniti due in un essere solo, Diana ed Aurora che si contendono l’amore di Orione capitato a nuoto nella privata isola di Delo con torsi nudi visibilmente finti, Venere truccata da orrenda strega.
Azzeccata è l’ambiguità del servo Folotero, anche un po’ nutrice barbuta in abiti femminili e piuttosto gelosa del suo Orione, ma proprio l’ambiguità è la cifra essenziale di un lavoro che da tempi
lontani riprova a divertire oggi. La ricca compagnia di canto ha fatto un lavoro apprezzabilissimo, il testo era opportunamente proiettato sopra il proscenio, però tutto era molto comprensibile anche per l’ideale concertazione di Marcon che ha scelto di rispettare, come Cavalli voleva, il respiro delle parole e delle frasi. Il gioco di interrompere ad ogni ritorno una passacaglia ostinata con un gruppo di curiosi angeli fucilieri, anzi nel suono mitragliatori, ricordava opportunamente la presenza dei tagli. Non era quindi uno spettacolo per filologi, ma era intelligentemente filologico sia nella ricostruzione sia nella attualizzazione, così che il teatro si è riempito per tre sere e il successo è stato ben meritato.