Ho imparato a rileggere Boito e ad ammirare le sue caleidoscopiche stravaganze verbali dopo uno spettacolo per marionette, ideato da Margot Galante Garrone con la regia di Ugo Gregoretti. Margot ha pensato di dare vita scenica ad un libretto mai rappresentato del 1865, Re Orso, un emblema delle tentazioni torbide e allucinatorie del poeta (immerso nella prima stagione in un sogno di palingenesi letteraria), percorse da sperimentazioni crudeli quasi espressioniste. Allora Margot reinventò la favola perversa con le antiche marionette ottocentesche dei Lupi, investendo la vicenda in una creatività melodica che sincretisticamente accoglieva nel suo singolare canzoniere le più diverse seduzioni, dal cabaret, al dramma romantico, all’arietta barocca. Allora mi accorsi come strutture musicali apparentemente semplici svelano armonici culturali molto compicati, persino sofisticati.
Da quella felice esperienza nacque l'idea di costituire a Venezia un'opera di spettacolo per marionette. Si inventò cosi il “Gran Teatrino La Fede delle Femmine", il cui titolo è ispirato ad un verso di un’aria metastasiana, successivamente ripreso e modificato da Da Ponte per il Così fan tutte. Da allora l’équipe, in tutto quattro donne, realizza ogni aspetto dello spettacolo miniaturizzato, tra teatro musicale e ballo pantomimico. Margot Galante Garrone si occupa del copione, della regia, della coreografia e del montaggio musicale; Paola Pilla degli oggetti scenici e delle scenografie; Roberta Palmieri degli effetti speciali e delle luci.
Tutte insieme, poi, manovrano la marionetta e partecipano all’allestimento. La scelta e la rielaborazione dei soggetti contribuiscono a chiarire come queste rappresentazioni non sono giochi infantili per platee infantili, ma pensate per adulti, come si usava nella tradizione barocca e settecentesca (gli spettacoli per bambini appartengono ad una tradizione più vicina, risalente per lo più all’Ottocento). Si cominciò non a caso con l’adattamento teatrale del romanzo di Giacomo Casanova, Edoardo ed Elisabetta, ove si racconta di un viaggio “galante” di una coppia di gemelli veneziani, che giunge al centro della terra in un paese favoloso dove vivranno per 288 anni, prima di fare ritorno a Venezia, mettendo al mondo un’infinità di gemellini. Il lungo viaggio è metafora di un'aspirazione a ritrovare la felicità primigenia anteriore al peccato originale. L’impostazione figurativa è di impianto illuministico, al pari della musica, una colonna sonora costituita di brani cembalistici e fortepianistici di Galuppi, montati e contaminati dal rag-time (sonorizzato con un cembalo!) di Scott Joplin. Il taglio visuale è essenzialmente pantomimico, il ritmo motorio punta sulla mobilità brillante e sulla ostinata ripetitività dei gesti e delle azioni entro cornici esotiche, alla ricerca di un ideale di candore, del tutto privo di erotismo, che è fuga dal presente e immersione nell’immaginario fantastico.
Dopo quella prima esperienza collettiva, ‘La Fede delle Femmine” ha mutato registro in Questo è il vero Pulcinella. Qui le musiche non sono di Galuppi e dintorni, ma di Stravinsky. Non esiste più una corrispondenza tra musica e gesto: la fantasia surreale di questi racconti marionettistici impone anzi una divaricazione tra suono ed immagine. Dietro le maschere neoclassiche del Pulcinella di Stravinsky affiora il tema “folklorico - simbolico del Cristo Pulcinella”. Quanto dire la rievocazione di una Napoli secentesca, quasi vista attraverso la figuratività partenopea di Roberto De Simone, una investigazione inquieta e inquietante dell’“lmmaginario popolare italiano”; qualche cosa di diverso, dunque, dallo snobismo parigino di Stravinsky. Il Gran Teatrino, d’altronde, postula sempre la dissacrazione con tagliente parodia, con leggerezza ironica e con fantasia funeraria. È indicativo in tal senso il manifesto di questa poetica: “sinistre doppiezze, lazzo e rito, carnevale e quaresima Dio e uomo, povero Dio e povero uomo, gioco e morte, morte e resurrezione, nome e anonimia. Doppiezze confuse, circolanti, frenetiche tra spazio, piazza, mente, occhio, orecchio, musiche, balli, preghiere, miracoli”. Con l’ultimo spettacolo, allestito per il Dipartimento angloamericano di Cà Foscari e per La Fenice (verrà presentato all'inizio di dicembre) l’ottica ideativa cambia ancora e si rinnova. Si utilizzano musiche filmiche (nel nostro caso quelle pensate da Mauricio Kagel per Ludwig Van, che rievoca la vita di Beethoven in un montaggio espressionistico-dadaista), rovesciandole di segno e adattandole ad un copione totalmente diverso. La vicenda è desunta da The Scarlet Letter di Hawthorne, ambientata nella Boston puritana del XVII secolo. L’aggressività repressiva nei confronti dell’adulterio è ora reinvestita da un impianto scenico scabro, fatto di sbarre geometriche, di una ossessività nevrotica. L’eccitazione motoria di Edoardo ed Elisabetta si trasforma in una discorsività statica, in gesti bloccati: lo spettacolo sfida l’inerzia e affida la propria suggestione a varianti minime, a movimenti impercettibili. All’opposto i montaggi beethoveniani “composti” da Kagel costituiscono l’azione sonora del dramma: se i suoni si muovono, le immagini si fissano in interni monocromi e angosciosi, di un cupezza carceraria. Dopo questa interpretazione globale del cosmo di Hawthorne (come globale appare l’interpretazione della vita di Beethoven nel montaggio di Kagel) vedremo, in concomitanza con l’apertura della stagione lirica della Fenice, quale omaggio al fantastico melodrammatico, Una favorita, per favore! ovvero la carriera di un Iibertone.