Sarebbe forse riduttivo annoverare il «Gran Teatrino La Fede delle Femmine» nella semplice categoria degli spettacoli di figura: da anni ormai queste colte e raffinatissime marionettiste veneziane, che appaiono di rado e solo in poche selezionate rassegne, non si limitano a dare vita alle loro creature di stoffa e di legno, ma con cura maniacale, con impeccabile perfezione stilistica compongono delle straordinarie costruzioni visive e sonore, delle sorprendenti partiture di emozioni, attingendo a un insolito repertorio che spazia da Freud a Brecht a Zanzotto.
Quasi ai margini di quel gran calderone caotico e affollato che è il Festival della Letteratura di Mantova, Margot Galante Garrone e le sue compagne di lavoro hanno ora proposto alla loro maniera La Grande Bretèche di Balzac, un racconto livido, crudele cui manca solo un passo per entrare nei territori di Poe: c’è una magione in disarmo, una bella moglie che nega sul suo onore di aver nascosto il proprio amante nel piccolo guardaroba adiacente alla camera, e un marito spietato che fa murare lo stanzino, e resta lì venti giorni, accanto alla donna angosciata, per accertarsi che la sua vittima non venga fatta uscire.
La densa storia "nera" non viene però sviluppata nel suo impianto narrativo, ma evocata per frammenti e citazioni, brandelli di situazioni esasperatamente dilatati. l temi del tradimento, del muro assassino, del deperimento e della fine della stessa protagonista sono raccontati, rappresentati, proiettati in una vertiginosa sintesi metaforica che giustappone sequenze filmiche, marionette, oggetti, arti umani in carne e ossa mostruosamente sproporzionati nella minuscola ribalta, il tutto scandito dalle musiche incalzanti, specialmente di Gluck e Nino Rota.
Il filo conduttore è soprattutto costituito dal video che scorre sul microscopico schermo in fondo alla scena: primi piani, azioni immerse in un paesaggio di campagna, espressioni da cinema muto, di fattura casalinga ma elaborate e pressoché rese astratte dal sapiente montaggio. Sotto lo schermo, ecco ora le assorte figurette mosse dai fili, ora due ceri funebri, o l’emblematica testa di un’antica statua del Cristo col volto macchiato di sangue e i capelli e la barba posticci, e il lettuccio con l’adultera ormai moribonda, la manina che si protende in un ultimo spasimo di vita.
L’ampio spazio concesso alle immagini digitali sovrasta, ma certo non annulla, la presenza dell’invenzione plastica e scenotecnica, prosciugata, rarefatta rispetto ad altre precedenti occasioni, ma ancora più incisiva proprio perché così eloquentemente centellinata: anzi, paradossalmente, sono proprio i personaggi "reali" incarnati sullo schermo a sembrare le ombre o i "doppi" delle marionette. Fra giganteschi crocefissi e sinistre proliferazioni di mattoni, il tono prevalente è quello di una cupa ironia, percorsa a tratti da una nota malinconica come di rimpianto. Ma quello che La Fede delle Femmine va tratteggiando nel suo approccio ai vari autori è un paesaggio niente affatto innocuo o consolatorio, ma buio e inquietante: con grazia perfida il gruppo persegue una sorta di miniaturizzazione rituale dei nostri incubi, un viaggio su scala ridotta del lato oscuro dell’uomo.